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On Immigration

UKIP's Farage returns to Scotland

It is always funny to talk about immigration, because it is one of those issues that tends to extremely polarize the audience.

On one side, the educated (not necessarily smart though!), wealthier, higher achiever, open-minded minority and, on the other side, a huge crowd of minus habentes, whose components are too lazy to improve their own skill-set and adapting it to the new world, but more than ready to blame the “others, the foreigners” for the faults and frustration of the formers.

Needless to say, one is in favour (or at least neutral) towards the immigration phenomenon, while the other party is willing to fight – sometimes literally – in order to stop the hordes of criminals and job stealers from entering the sacred borders of the Country.

There is, also, no need to be politically correct.

Those who are against immigration cannot be trusted as decision makers, in fact – using a concept magnificently expressed by the caustic comedian Doug Stanhope (see video below) – if someone with little education, who can barely speaks the language and has no connections in your Country, is as qualified as you are to do your job…well… you are probably a loser of gigantic proportion and you should not be allowed to exert your influence over topics affecting the general interests (probably not even on your own private life, to be fair).

Unluckily, Western Democracies don’t embrace a “weighted” vision of the ability to vote, and remain stuck to the prehistoric conception of “one head, one vote”, forgetting to inquiry if there is a functioning brain inside that head and, thus, leaving our future in the hands and guts of an angry and frustrated mob.

Nigel Farage and Marine le Pen have been masters in catalyzing the ancestral fears of the voters (mostly connected to the ongoing economic crisis), turning them in political consensus and seriously menacing Europe and its population of bringing back the lancets of history to its dark and medieval age.

Many times I’ve thought that the only founding reason of European Union had simply been the creation of a common marketplace, and that there is no such thing as a shared European identity.

The following months (and years) will determine the rationale of the European treaty, and I sincerely hope to be proved wrong.

Alla ricerca del tempo perduto – 30 Days Challenge

bianconiglioIn un mondo di incredibili diseguaglianze, una sola risorsa è stata distribuita in misura identica tra tutti gli esseri umani, e non esiste ricchezza o conoscenza che ci permetta di aumentarne il volume a nostra disposizione.

Sto parlando ovviamente del Tempo.

Nonostante la sua intrinseca limitatezza e l’impossibilità di accumulo, che ne dovrebbero accrescere il valore in modo incommensurabile, è probabilmente la cosa che sprechiamo in misura maggiore. Salvo poi lamentarci – quotidianamente – di non averne abbastanza.

I maggiori responsabili di questo incredibile spreco sono solo due:

1) Noi Stessi

2) Gli Altri

È facile intuire come le altre persone – volontariamente o involontariamente – si approprino del nostro tempo o, più correttamente, ci obblighino ad utilizzarlo secondo i loro bisogni o desideri.

Frequenti ed inutili riunioni, telefonate o messaggi, attese fuori (e dentro) uffici pubblici e privati, ci privano della nostra risorsa più preziosa ed interrompono il nostro flusso di lavoro, costringendoci ad uno sforzo extra per recuperare la concentrazione persa e riprendere la nostra attività.

Non parlo certamente della telefonata della persona amata o dello scambio di messaggi divertenti nei momenti dedicati al tempo libero, ma a quella miriade di richieste più o meno insignificanti che, specie sul luogo di lavoro, ci viene rivolta ogni giorno e che, il più delle volte, potrebbe essere a) sintetizzata ed inviata via mail; b) chiesta in un momento successivo e c) risolta autonomamente proprio da chi ha posto la questione.

Nonostante quanto detto sopra sia vero, ritengo che il maggiore responsabile della distuzione non creativa del mio tempo sia proprio io.

Ed ho intenzione di effettuare un test personale per verificarlo.

Per i prossimi 30 giorni farò le seguenti cose, dopo aver disattivato ogni sistema di notifica auotmatica sul mio telefono:

1) controllo della mail (personale e lavorativa) due volte al giorno, alle ore 12 ed alle ore 17;

2) accesso a Facebook una volta al giorno, verso sera, per massimo mezz’ora;

3) divieto di accendere la televisione o di accedere a youtube, salvo che per guardare un programma di mio effettivo interesse selezionato in precedenza su base settimanale (vietato lo zapping).

Cosa farò nel frattempo??

Beh potrei lavorare, uscire, fare attività sportiva, leggere, andare al cinema, pulire casa, (imparare a) cucinare, dormire qualche ora in più per notte…

Lo scopo di questa sfida personale è, infatti, non solo essere più produttivo e fare un uso più intelligente del mio tempo, ma evitare tutte quelle attività che hanno solo l’effetto di anestetizzarci, interromperci ed, in definitiva, farci consumare tempo senza darci nulla in cambio.

Vedremo come andrà!

Selezione Avversa

apples

Partiamo da una storia. Vera.

Immaginate di essere un malato di sclerosi a placche, quel genere di malattia che lentamente ti fa perdere il controllo del tuo corpo, facendolo diventare la tua prigione.

Quel tipo di malattia che un giorno ti ucciderà perchè, semplicemente, il tuo corpo non potrà più nemmeno gestire i muscoli involontari dell’apparato respiratorio, facendoti soffocare.

Ma questo non basta.

Una simile malattia, oltre a farti dipendere quasi completamente dagli altri, ti concede anche periodi di notevole sofferenza. Ad esempio quando, per i problemi sopra ricordati, dei frammenti di cibo ti finiscono nei polomoni, invece che nello stomaco, causando un’infezione che si trasforma in polmonite.

Aggiungiamo, infine, che l’ospedale presso cui sei normalmente in cura, una struttura attrezzata che ha una piena conoscenza della tua situazione, non ha posto per te. Non adesso almeno.

Vieni dirottato in un centro di provincia, un ospedale di campagna, con la consapevolezza di essere arrivato alla fine del tuo viaggio tormentato.

Ma l’imprevisto, si sa, è dietro l’angolo.

Lì incontrate un giovane dottore. Forse non sarà il migliore (d’altra parte presta servizio in quel posto sperduto), ma immediatamente vi rendete conto che possiede una caratteristica che apprezzate in modo particolare: gliene frega qualcosa della vostra situazione. E preferisce cercare di farvi guarire, invece di compilare solo la vostra cartella clinica.

Nessuno gli ha chiesto di farlo, ma lui viene ad occuparsi di voi anche quando non è di turno. Prova tutto il possibile e, alla fine, vi salva.

Vorreste almeno stringergli la mano, se solo poteste muoverla. Ma chi si comporta così difficilmente lo fa per avere un riconoscimento esterno, per cui non ve ne preoccupate più di tanto.

State per essere dimessi quando il giovane dottore viene convocato d’urgenza dal primario.

Un encomio? Un attestato di stima? Forse è eccessivo – pensate – in fondo non possiamo pretendere che il lavoro del medico sia vissuto da tutti con la dedizione tipica della missione. Basterebbe svolgere la prestazione con un grado di diligenza adeguato. Però un simile esempio non potrà che fungere da stimolo positivo per tutti gli altri.

Siete quasi immobili, ma non sordi. Non credete, comunque, a ciò che sentite.

Il dottore viene sommerso da offese e rimproveri. Nel vostro caso, come in altri, il primario ritiene sia stato “troppo scrupoloso”, per usare un eufemismo.

Ricoveri troppo lunghi, troppi esami disposti, troppa attenzione dedicata ai pazienti. Una settimana al massimo in ospedale e poi fuori, guarito o meno.

Il giovane dottore esce dalla stanza scuro in volto, vi saluta cordialmente e ritorna in reparto.

La storia appena descritta, oltre ad infastidire oltremodo, descrive perfettamente un fenomeno economico definito “Selezione Avversa“.

Quando il mercato presenta questo tipo di situazione, il prodotto peggiore (od il contraente peggiore) sarà quello più gettonato, mentre i prodotti migliori saranno quasi completamente ignorati. La moneta cattiva scaccia quella buona, direbbe Gresham.

Questa tipo di fenomeno è di drammatica attualità nel mercato del lavoro italiano.

Tutti i soggetti meno attenti, meno appassionati, meno eticamente connessi con il proprio incarico lavorativo vengono sistematicamente preferiti ai loro colleghi più zelanti.

Questo perchè l’imperativo odierno è rappresentato dal contenimento dei costi, oltre che dalla velocità della prestazione. Ci si dimentica, però, che – specie i problemi più delicati e complessi – richiedono un livello di attenzione e dedizione, oltre che una quantità di tempo, che non può essere limata oltre un certo limite.

La conseguenza di questo fenomeno è che farà carriera il medico superficiale, a scapito di quello scrupoloso; il magistrato dal giudizio sommario, rispetto a quello dal giudizio ponderato; l’ingegnere disattento, invece di quello attento.

Ma non solo.

Posto che il processo evolutivo si basa sulla selezione delle caratteristiche determinanti per la sopravvivenza, un simile processo di selezione avversa non potrà che favorire, in generale e nel tempo, gli incompetenti anzichè i competenti, obbligando questi ultimi o a trasformarsi nel genere dominante, o ad abbandonare il sistema.

Tutto questo, ovviamente, per un periodo limitato, poichè nascondere la polvere sotto al tappeto non ha mai eliminato la polvere e, del pari, la mancanza di decisione o di capacità nell’affrontare i problemi non hai mai l’effetto di eliminarli, ma, al contrario, di renderli spesso irreversibili. Con il conseguente crollo dell’intera struttura.

Il nostro Paese, per queste ragioni e per i noti problemi di nepotismo e clientelismo, che della selezione avversa sono semplici corollari, è una struttura intrinsecamente fragile, che presto sarà obbligata a collassare dalla forza livellante del tempo e dai suoi Cigni Neri.

Ai lettori più attenti e consapevoli il compito di attuare le opportune contromisure, per evitare di fare la fine del tacchino di Bertrand Russel.

Primo Giorno

Sono le 19.30. Senti la tua testa affaticata dalla giornata che è appena trascorsa. Molte sono le domande che si affollano nella tua mente. Pensi che sia una buona idea andare, domani, di buon mattino, in tribunale e disegnarne una piantina dettagliata…hai paura di perderti tra tutte quelle stanze e tutta quella gente sempre di corsa…

Sono le 19.30 e pensi che, come primo giorno, tutto sommato possa bastare. Sei stato attento. Non hai mostrato alcun cedimento, nonostante la testa ti rimbombi a causa delle novità che, in un solo giorno, sono piombate nella tua vita. Hai retto il colpo e ti meriti un buon riposo.

Ti meriti di tornare a casa e raccontare a tua madre quante cose incredibili ti sono capitate, gustare la tua cena con la consapevolezza di chi non è più un peso per la società, ma uno dei suoi nuovi motori, pronto a ruggire.

Ti meriti di appoggiare la testa sul tuo cuscino, ma non per dormire, non subito almeno. La stanchezza, infatti, non impedirà alla tua mente di viaggiare nel tempo e di sognare. Pensare ai primi giorni di scuola, dalle elementari all’università, ad un percorso di formazione professionale e personale, che culmina, finalmente, con l’ingresso nel mondo del lavoro.

Sei stanco, ma non riesci a dormire. Ti chiedi se è davvero quello che vuoi fare. Se sarai davvero capace di imparare a scrivere tutti quegli atti così difficili. Se sarai capace di tenere testa a pubblici ministeri e avvocati nelle discussioni in udienza. Se anche solo riuscirai a superare l’esame di abilitazione. Ti chiedi se l’ironico “Buongiorno Avvocato!”, con cui i tuoi amici usano salutarti, un giorno, potrebbe perdere la sua connotazione scherzosa e diventare tragicamente reale.

Sono le 19.30 e sei ancora in studio. Hai iniziato alle 9 della mattina e vorresti tornare a casa. Nessuno altro, però, è ancora uscito. Nessuno, ancora, ha rotto i ranghi.

Passano i minuti. Non vuoi sembrare uno di quelli che prende questo mestiere con poca serietà, che ha poca voglia di lavorare. D’altra parte è anche il tuo primo giorno, uscire un po’ prima dei colleghi non può essere visto come un segno di debolezza.

Raccogli, alla fine, alcune briciole di coraggio e sussurri un:” Ehm…io andrei se non c’è altro..” al collega di stanza. Lui fa segno che non c’è alcun problema. “È fatta!” pensi, mentre raccogli la tua roba dentro la valigetta che i tuoi amici ti hanno regalato per la laurea ed esci.

Percorri il lungo corridoio che separa la tua stanza dal portone in legno pregiato dell’ingresso, una breve sosta davanti ad uno specchio appeso per notare che fai la tua figura con addosso la giacca e la cravatta – anche se non è, per te, l’abbinamento più comodo – e bussi, infine, alla porta del grande capo.

Avanti!” esclama, e tu entri. La camera è grande e poco illuminata. Non vorresti calpestare i grandi tappeti che ricoprono il pavimento, ma l’alternativa sarebbe saltare sul tavolino di cristallo e, da lì, sulla grande scrivania dell’avvocato. Non ti pare un buona idea. Non il primo giorno almeno.

Ti avvicini. Sta parlando al telefono con qualcuno di importante. Lo capisci dal fatto che non sta urlando. E imprecando. Attendi immobile il tuo turno.

Ne approfitti per gettare il tuo sguardo sulle altre parti della stanza. Una maestosa libreria di colore nero occupa la parete a destra dell’entrata, mentre, sulla sinistra, un divano ed una poltrona in pelle, sistemati ad angolo, invitano alla lettura.

Quando, ormai, pensi di essere destinato a fare parte, anche tu, dell’arredamento, la telefonata si interrompe. “Bene avvocato, io andrei…” dici, con la sicurezza di un pulcino appena uscito dal guscio. Lui ti dice di aspettare un attimo. Chiama la segretaria e le chiede di portare una copia della chiavi dello studio.

Questa frase ti riempie d’orgoglio! È bastata una giornata per convincere il grande capo del tuo valore, per convincerlo che sei una persona seria, capace e responsabile. Un sorriso compiaciuto si dipinge sul tuo volto.

Ecco le chiavi dello studio, Davide”- esclama – “Voglio che tu sappia che questo non è un attestato di stima, ma il simbolo della tua nuova schiavitù”.

Forse mi sono sbagliato.

Pillole di Risentimento Fiscale – Ep. 2

Oggi, finalmente, si parla di IMU.

Davvero troppo facile parlarne male. Perchè?

1) Pacifica violazione del divieto di doppia imposizione. Ti tasso (molto) il reddito e poi lo tasso ancora quando il reddito risparmiato diventa patrimonio immobiliare, per il solo fatto di possedere una casa e non perchè la stessa sia produttiva di reddito (per i denari derivanti da locazione vi aspetta la tagliola della vostra aliquota marginale IRPEF o della cedolare secca).

2) Mancanza di progressività. L’IMU colpisce nello stesso modo i possessori di case, a prescindere dalla loro reale capacità contributiva. Ma perchè imporre tributi conformi alla Costituzione?

3) Bancomat Statale. La cara vecchia ICI – parimenti vergognosa – aveva un unico pregio. L’Imposta Comunale sugli Immobili rimaneva al Comune dove gli immobili erano situati, per cui ti estorcevano del denaro, ma almeno avevi la speranza che quelle somme insanguinate pagassero asili e trasporto pubblico locale. La svolta dell’IMU è destinare una quota rilevante delle somme ricavate allo Stato. Per pagare cosa vi è tristemente noto.

Il punto, ancora una volta, non è imporre o meno una tassa sugli immobili. Il patrimonio, specie quello immobiliare poichè facilmente tracciabile, viene tassato più o meno ovunque nel Mondo.

Il problema nasce quando nel nostro Paese, caratterizzato da un’altissima tassazione diretta ed indiretta su reddito e consumi, si introduce un’imposta così elevata sul patrimonio, che altro non è che reddito tassato e non consumato. Le briciole insomma.

Le due cose, nell’attuale sistema fiscale italiano, non possono coesistere. Punto.

Chi, oggi, vi parla di patrimoniale lo fa solo per ideologia o per ignoranza (fiscale), per cui diffidatene.

Ma veniamo adesso ad un vero capolavoro introdotto dall’ultima Legge di Stabilità.

Il suo nome esotico è Tobin Tax.

In primo luogo non è una tassa. O almeno non è stata concepita per lo scopo tipico delle tasse.

La sua è una funzione di dissuasione. Di contrasto alla speculazione finanziaria. Bene direte no? Cazzate! Almeno per come è stata introdotta nel nostro Paese.

La tassa funziona più o meno così: ogni volta che effettuo una transazione finanziaria, pago una tassa (oltre alla commissione del vostro operatore finanziario), a prescindere dal guadagno che ho ricevuto. Questo dovrebbe limitare di molto prassi come quello dello scalping ed ogni altra forma di high frequency trading ed, in definitiva, ridurre il numero delle transazioni per seduta e stabilizzare, quindi, il mercato.

Un’operazione del genere, per pensare di ottenere il risultato desiderato, dovrebbe essere applicata all’intero mercato globale (o, almeno, all’interno dell’Eurozona, come, in verità si sta cercando di fare), mentre introdurla solo nel mercato italiano è un’autentica follia economica.

L’effetto sarà solo quello di far migrare i capitali verso Londra o Francoforte, privando il nostro mercato di risorse essenziali e probabilmente riducendo il gettito fiscale derivante proprio dalle operazioni finanziarie, posto che più operazioni consentono maggiori plusvalenze (tassate) e generano comunque reddito tassabile in capo agli operatori finanziari. Chiedere alla Svezia per conferma.

Si aggiunga, inoltre, che la Tobin Tax in vigore nel nostro Paese è stata costruita “all’italiana”, per cui numerose sono le falle normative che, in realtà, penalizzeranno il risparmiatore senza colpire lo speculatore (si veda il processo alla Tobin Tax italiana del Sole 24 Ore, che termina, secondo chi scrive, con una condanna difficilmente appellabile).

Insomma, rosee prospettive ci attendono e, nel mentre, preparatevi all’ultimo intervento in materia di processo tributario

Pillole di Risentimento Fiscale – Ep. 1

L’Italia ha un disperato bisogno di una riforma fiscale.

Non si tratta di tagliare qualche punto di IRPEF o di IVA, ma di ripensare completamente la struttura del nostro sistema fiscale, che non ho problemi a definire “feudale“.

Eh già, perchè nei Paesi moderni la tassazione non è più l’espressione della capacità estorsiva del vassallo a danno dei suoi sudditi, ma è, invece, un modo per finanziare alcuni servizi essenziali per i cittadini.

L’Italia ama fare eccezione, e come sempre è un’eccezione negativa. Vediamo di analizzare assieme alcune imposte, per poi passare ai metodi di accertamento.

Partiamo dall’IVA.

Il fondamento ideologico dell’imposta risiede nel fatto che passare un bene da una mano ad un’altra ne aumenti il valore. Se questo è vero per il passaggio da materia prima a prodotto lavorato, negli altri e potenzialmente infiniti passaggi il concetto perde di consistenza. Se poi si pensa che la stessa viene applicata anche alle prestazioni di servizi, le obiezioni si sprecano. Ma così è, per cui accettiamolo come un dogma.

Ovviamente l’IVA è una delle imposte più evase, posto che per il fornitore di beni e servizi è una mera partita di giro (non entra un centesimo dell’IVA in tasca a chi vi fornisce la prestazione) e per il consumatore significa pagare il 21% in più per ottenere esattamente la stessa prestazione.

Appare evidente come l’unico modo per combattere l’evasione IVA sia applicare quello che viene definito “contrasto di interessi”, cioè permettere al consumatore (soggetto su cui grava integralmente il peso dell’IVA) di dedurre una percentuale dell’IVA pagata, obbligando l’imprenditore od il professionista ad emettere fattura.

La risposta del nostro governo? Aumentare l’IVA al 22% da Luglio 2013!

Attenzione però! L’evasione IVA non è confinata solo nel proprio territorio, ma si estende anche al settore delle imposte dirette sui redditi ed al sistema economico in generale.

Infatti, evadere l’IVA significa non dichiarare nemmeno la prestazione principale cui la prima accede, mentre aumentare le imposte sui consumi significa, ovviamente, deprimere gli acquisti, la produzione, i salari ed infine l’occupazione. Well done davvero!

Veniamo ora all’IRAP.

Denominata dai migliori osservatori Imposta RAPina, è uno dei capolavori fiscali degli ultimi anni.

Viene stabilito che un imprenditore o un professionista debba essere tassato per la sua capacità di generare valore aggiunto dall’organizzazione dei propri mezzi di produzione. Mi sembra chiaro che il “valore aggiunto” di cui sopra in ogni Paese civile si chiamerebbe “reddito”, realizzando una pacifica doppia imposizione fiscale.

Ma il legislatore italico non si ferma a questo. Infatti l’IRAP viene calcolata su un valore imponibile costituito dalla differenza tra il valore della produzione ed i costi della produzione, escluse, però, alcune voci minori, tra cui quella inerente ai costi del personale dipendente. Deve anche essere fatto notare che il valore della produzione – almeno per le imprese – riguarda il fatturato, e non, invece, l’utile dell’impresa.

La conseguenza di tutto ciò è che l’imponibile IRAP descrive una realtà imprenditoriale completamente adulterata, ed in molti casi la gabella deve essere corrisposta anche in caso di utile d’esercizio negativo.

Come a dire, “Caro imprenditore, hai organizzato talmente bene gli elementi produttivi della tua impresa che, in questo esercizio, non hai guadagnato un centesimo. Per cui devi essere tassato!”. Chapeau.

Vi lascio con un aforisma, che spero ispiri le vostre vite:”The difference between tax avoidance and tax elusion is the thickness of a prison wall“.

Nel prossimo episodio IMU e Tobin Tax

Ma come ci sono capitato?

La gita di seconda superiore. Un evento atteso da tempo e pieno di aspettative, non tutte collegate all’arricchimento culturale.

Siamo sull’Intercity notte Trieste – Napoli (chissà se esiste ancora!), e, quando il treno lascia la stazione, iniziamo finalmente a respirare quell’aria di libertà e divertimento che solo una gita scolastica può concedere.

Iniziamo, quindi, a conoscere l’altra classe che ci accompagnerà nella nostra settimana sulla costiera amalfitana.

Immediatamente, un ragazzo attira la mia attenzione: barcollava da una parte all’altra dello scompartimento in visibile (e udibile) stato di ubriachezza. E non eravamo neanche a Monfalcone.

Era chiaro che saremmo diventati grandi amici.

Dal giorno stesso, infatti, entrò a far parte del nostro gruppo. Ma nelle giornate successive iniziai a capire il perchè di tale immediato e forte attaccamento a noi. Nella sua classe, infatti, era costantemente bersaglio di attenzioni e complimenti non proprio piacevoli. Quelli che oggi chiameremmo atti di bullismo.

Il ragazzo, infatti, pur essendo tranquillo e divertente, aveva un atteggiamento decisamente passivo verso la vita e le persone, e questo lo rendeva lo sfogo ideale delle frustrazioni dei suoi compagni.

Uno, in particolare, si accaniva con particolare veemenza verbale su di lui, ricordandogli, continuamente, quanto la sua condizione fosse vicina a quella dei “pezzi informi di materia organica anfibia comunemente detta merda”, per dirla con il sergente Hartman.

La cosa mi infastidiva, anche perchè il ragazzo nulla faceva per provocare simili reazioni.

Una sera a cena ci fu l’ennesimo episodio, proprio accanto a me. Quella volta non mi tratteni.

Interruppi il monologo diffamatorio e dissi al fine oratore che avrei risposto io al posto del ragazzo, e che gli insulti, da quel momento, poteva indirizzarli tranquillamente a me.

Iniziai, quindi, ad offrire a lui ed alle persone presenti una diversa prosepettiva della sua persona, applicando con rigore i principi pirandelliani del sentimento del contrario (a.k.a. prenderlo per il culo), e la cosa piaceva alla gente attorno. Ed una folla che si unisce in una risata è il miglior carburante per le contumelie.

Dopo una breve resistenza, il “bullo” ne ebbe abbastanza e lasciò la tavola. E, come nelle migliori favole, non venne più ad infastidire né il mio amico, né me.

Non so feci quello che ho fatto per puro spirito di filantropia, o solo per avere una ragione legittima per offendere il prossimo. In ogni caso, è a questo episodio che penserò domani mattina prima di iniziare l’esame scritto per diventare avvocato.

La Ragione del Successo

Alcune persone fanno determinate cose molto meglio di tutte le altre. Questo permette loro di distinguersi dalla massa, raggiungendo uno status superiore, rispettato e spesso invidiato dalla generalità delle persone.

La sensazione di superiorità che deriva dalla capacità di eccellere in qualche settore della vita accarezza il nostro ego in una misura che il denaro non può raggiungere. E infatti il denaro, in generale, è solo un indice di misurazione del proprio successo, non certo il fine dell’esperienza stessa.

L’ebbrezza che il cocktail di neurotrasmettitori produce nel nostro corpo quando ci sentiamo – nello stesso tempo – amati, rispettati, temuti ed invidiati, spinge da sempre l’uomo ad interrogarsi su come raggiungere la vetta della piramide sociale cui apparteniamo.

Il percorso è lungo, faticoso ed estremamente competitivo. Ed il risultato è quantomai incerto.

Per terminare vittoriosamente la nostra scalata abbiamo bisogno di una forte motivazione, oltre ad un pizzico di talento e fortuna.

Non potendo incidere sugli ultimi due fattori, l’unica nostra zona di influenza potrà essere la metaforica spina dorsale delle nostre azioni, la ragione profonda del nostro agire.

Ebbene – assumendo un tono oracolare – l’altezza massima che possiamo raggiungere è già scritta nella nostra storia passata. Infatti, applicando una rudimentale analogia matematica, la misura e la forza della nostra motivazione è direttamente proporzionale ai traumi ed alle sofferenze che abbiamo subito nel corso della nostra vita.

La fame di ricchezza di chi ha provato la povertà, il desiderio di vita di chi è scampato a malattie terribili e la voglia di essere amati di chi è stato sempre rifiutato – solo per citare alcuni esempi – sono l’unico vero discrimine tra chi ci riesce e chi, invece, no.

Questa considerazione conduce, però, a due opposte riflessioni.

Numero Uno

Gli individui predisposti per il successo percepiscono una profonda disarmonia interiore ed il loro desiderio di autoaffermazione assume caratteri patologici, poichè è spinto dal desiderio di colmare un deficit di esperienze positive troppo a lungo negate o di cancellare esperienze negative similari a quelle subite dalla faccia della Terra.

Queste spinte, purtroppo, non si esauriscono mai, impedendo al soggetto di trovare soddisfazione stabile nei risultati raggiunti, a prescindere dal grado di essi.

Numero Due

Non ci si deve far, però, spaventare da quanto scritto sopra.

Felicità, pace ed armonia sono condizioni delle quali l’uomo può approfittare per brevissimi lassi di tempo, ed avere avuto successo non estende di molto questi periodi.

Credo, invece, che aver identificato nella sofferenza patita la spinta per un’esistenza ricca di esperienze positive – capace, in alcuni casi, di incidere profondamente nel corso della storia – possa lanciare un importante messaggio di speranza.

Avere la capacità di percepire le esperienze negative come la molla in grado di proiettarci verso le vette del successo, ridefinisce completamente il nostro rapporto con la sofferenza, la sconfitta ed il fallimento.

Questi, infatti, non sono passaggi eventuali ed indesiderabili di ogni esperienza, ma momenti necessari e perfino auspicabili, perchè in grado di insegnare molto di più dei loro omologhi positivi, oltre a temprare la nostra volontà anche per il futuro.

Giusto per citare una prova empirica di questa affermazione, si pensi che dal 1950 al 2007, solo 12 delle 500 società quotate più importanti del mondo sono state costituite in Europa (ed il numero scende a 3, se si considera il periodo dal 1975 al 2007).

La ragione di questa disparità, nonostante non manchino né le risorse finanziarie né quelle intellettuali nel nostro continente, risiede nella percezione del fallimento dell’imprenditore.

Mentre in Europa implica la morte sociale, altrove è percepito come uno dei possibili (e normali) esiti dell’attività commerciale.

Provare e fallire, e poi provare ancora, insomma, sembra essere una ricetta vincente in ogni sfumatura della vita umana.

Pen(n)a Capitale!

Il caso Sallusti riporta l’attenzione del pubblico sulle tematiche legate ai reati di opinione.

La questione è così riassumibile: “C’è ancora spazio, in una società moderna e democratica, dove libertà di pensiero e di parola sono diritti inviolabili, per sanzionare penalmente qualcuno per ciò che dice o scrive?”

Vi risparmio la fatica. No! E chiunque pensi il contrario è un emerito cretino!

Ops…ho offeso l’onore e la reputazione di qualcuno, potrei essere querelato, processato ed infine essere ospite delle patrie galere.

L’unica mia fortuna risiede nel fatto che non ho sufficientemente specificato chi siano questi “cretini”  per ledere la loro reputazione agli occhi dei consociati, oltre al fatto che, non avendo questo blog lettori, nessuno potrà mai sentirsi offeso.

Non trovate anche voi assurdo che uno sciocco commento su facebook possa dare origine ad un procedimento penale?

Se qualcuno ritiene che certe informazioni false, rilasciate sul suo conto, abbiano danneggiato i suoi interessi patrimoniali o morali, può sempre andare a chiedere un adeguato risarcimento in sede civile, senza intasare le procure con queste fattispecie bagatellari.

Così facendo – magari – polizia giudiziaria e magistratura potrebbero occuparsi dei veri reati, quelli di cui la gente ha effettivamente paura.

Ma la premessa della sopravvivenza di queste fattispecie penali è, purtroppo, ancor più preoccupante.

Per essere in grado di ledere l’altrui reputazione, ciò che viene detto deve avere due caratteristiche: 1) verosimiglianza dei contenuti e 2) attendibilità della fonte.

I reati di questo tipo esistono perchè le persone credono a quello che leggono sui giornali o su internet, senza vagliare le notizie criticamente, senza cercare delle diverse e contrarie informazioni in proposito.

Sallusti è stato condannato perchè i cittadini italiani ritengono che a) Libero sia una fonte attendibile di informazioni e b) il contenuto dell’articolo fosse verosimile.

Non dico altro perchè altrimenti la querela arriva davvero.

L’Elogio del Gregario

Seduto al tavolo di un bar in aeroporto, ho finalmente il tempo di scrivere un pezzo che meditavo da tempo.

Ci si interroga spesso su quali siano le cause del declino della Società occidentale. Personalmente ritengo che molti dei problemi derivino dall’incapacità di selezionare soggetti adatti a coprire ruoli dirigenziali.

Ma non è solo una questione di nepotismo. Credo che molto dipenda dai valori e dalle qualità associati al concetto di leadership.

Non esiste annuncio di lavoro che non richieda “capacità di leadership”. Fioriscono pubblicazioni che mirano a far emergere il leader dormiente dentro di noi ed, in generale, ogni individuo – specie se di sesso maschile – deve aspirare a diventare il “maschio alpha” del proprio gruppo. Le altre lettere non contano.

Penso ai colloqui di lavoro effettuati in gruppo.

La persona capace di imporre la propria volontà agli altri riesce a farsi notare dai responsabili delle risorse umane e viene selezionata per il posto di lavoro. Gli altri tornano a casa.

Bertrand Russel diceva che il problema dell’umanità è che gli stupidi sono sempre molto sicuri, mentre le persone intelligenti sono piene di dubbi.

Dove i selezionatori vedono una persona sicura di sè e capace di trascinare il gruppo attraverso un processo decisionale rapido ed efficace, io vedo prevaricazione, aggressività ed approssimazione.

Pensate alle conseguenze: da ogni gruppo viene selezionato l’individuo più aggressivo e prevaricatore, per poi essere inserito in un gruppo di lavoro composto esclusivamente da individui aggressivi e prevaricatori. Risultato? Un team di singoli protagonisti, incapace di svolgere funzioni complesse ed assolutamente instabile a causa delle lotte interne per il controllo del potere.

Si prospetta un futuro radioso per la vostra azienda.

Un leader lo si riconosce alla distanza, perchè il rispetto degli altri si guadagna lentamente, attraverso una serie di piccoli e grandi gesti, capaci di riflettere la nostra vera essenza.

Un leader non parla, ma ascolta. Un leader deve tenere più agli altri che a sè, senza voler essere protagonista e svolgendo ogni tipo di mansione che la situazione richieda, senza limitazioni si sorta.

Insomma un leader deve essere, prima di ogni altra cosa, un buon gregario.

Ed un mondo più equo e sostenibile può esistere solo se si è più disposti a seguire, che a comandare, insegnando ai propri figli a sviluppare qualità come la tolleranza, la transigenza e la compassione verso gli altri, piuttosto dell’affermazione di sè.

La prossima volta che vi troverete in un gruppo, date un’occasione all’individuo silenzioso, coinvolgendolo nella conversazione. Rimarrete sorpresi dall’originalità dei contenuti e dalle nuove prospettive che vi verranno offerte.

Ed entrambe le vostre vite saranno, probabilmente, migliori.